Non è possibile morire per un selfie

Il sabato del villaggio - Non è possibile morire per un “selfie”» Giovanni Valentini 6 May 2017  (FQ)

Non è possibile morire per un “selfie” 

Confezionare se stessi per presentarsi a un pubblico comporta una componente di esibizione

(da “Generazione APP” di Howard Gardner e Katie Davis – Feltrinelli, 2013 – pag. 75)

C’è un che di tragico e allo stesso tempo di grottesco nella fine dei coniugi trentunenni che il 1° maggio sono morti nel fiume Orta, durante una gita a Caramanico, nel Parco nazionale della Maiella. Per scattare un “selfie”, la moglie è scivolata sulle rocce umide e insidiose; il marito s’è tuffato nel tentativo di salvarla ed è annegato insieme a lei. Lasciano due figli piccoli, di 8 e 5 anni.

Non si può morire per un “selfie”. Non si può rischiare di perdere la vita per un autoscatto. E invece, accade sempre più di frequente, da un capo all’altro del mondo. Per immortalarsi in una foto più o meno ardita e stupefacente, tanti si suicidano involontariamente. È diventata una mania del nostro tempo, il tempo convulso della comunicazione istantanea, di Internet e dei social network. Una sorta di nemesi mediatica che miete vittime sull’altare della tecnologia. Un prezzo assurdo da pagare, in termini di vite umane, alla frenesia dell’esibizione e del protagonismo. Le statistiche dicono che nel 2015 sono morte 12 persone per autoscatti estremi. Più di quante ne abbiano uccise gli squali. E il fenomeno è tanto contagioso che in Russia il ministero dell’Interno ha diffuso una brochure per ammonire i cittadini sui pericoli della foto “postuma”.




Perdersi in due

(ma forse no)

In un museo-labirinto ci si può perdere, ma anche incontrare. La Fondazione Prada, a Milano, un intero modernissimo isolato di tanti blocchi, è saliscendi, chiusure materiche, improvvise aperture di luci, e quando due fotografi vi sono impegnati, su questo cammino deambulatorio e ingegneristico, possono sorprendersi l’un l’altro, ritrovarsi davanti allo stesso muro d’oro, sfiorandone le ombre, le proiezioni, le ondulazioni. Oppure bloccare, con l’obiettivo, figure del labirinto, coloro che ne custodiscono le sale-sacelli e quanti, molti sempre, le visitano, snocciolandosi in quei cortei che rendono la Fondazione Prada un museo visibilmente vivo. I giovani addetti e i visitatori internazionali si mescolano anche nel bar retrò, capolavoro di fantastiche memorie, un altro tassello cinematografico, e dada, della Fondazione. Se i due fotografi cercavano il volto, ce ne sono decine, e se soprattutto, come artisti di secondo grado, volevano indicare il rapporto fra l’opera e il volto, la persona che osserva, ecco le loro immagini scattate cui guardare come un curioso reportage. La fotografia, cos’è in questo ambiente architettonico, che alza o sprofonda gli sguardi, le persone, le prospettive? Diviene sia studio d’interni sia veduta aperta, mescola con una resa unica l’attrazione del dettaglio al totale. Le persone, eccole, diventare opere. Nello stesso attimo le opere ci invadono. Fotografie che s’inseriscono nella “quadreria” della Fondazione, il cui straordinario merito, e pregio, è di farci camminare rapidamente fra gli esiti del Ventesimo Secolo, pittura scultura, object, filmato, performance, divertissement. Ripresa da Fabio Secchia e Batsceba Hardy, questa cavalcata “museale” sembra trovare un ulteriore orientamento. Sembra fissarsi, agglutinarsi nelle aggiunte emozionali, gli occhi, le pose immobili, le bocche ridenti, la gente che, sorpresa, riprende il cammino. Questa è l’arte fotografica che fissa l’arte in movimento. E fra i due creatori fotografi, diviene la partitura, non solo l’una rispecchia l’altro, non unicamente si rimandano, si aggiungono, si completano, forse si incontrano nelle loro possibilità.

Dicembre 2015 - Roberto Agostini

Batsceba Hardy
about.me/batsceba.hardy


l’ambiguità della realtà

Uno degli aspetti più affascinanti della fotografia è quello di poter giocare con l’ambiguità della realtà.
Come fotografi, cerchiamo di infilare il mondo nella scatola che abbiamo nelle nostre mani. 
Distilliamo la visione che produce il mirino e siamo costretti a scegliere cosa metterci dentro e cosa invece lasciare fuori. La necessità di fare selezione apre però la possibilità di inventare un nuovo surrogato di realtà. Il mondo che rimane nella scatola si trasforma in un frammento che, sganciato dal contesto di provenienza, può spiazzare l’osservatore. La “magia”, ai miei occhi, è che per far ciò non occorre ricorrere ad alcuna delle formidabili forme di manipolazione che la fotografia digitale mette a disposizione, ma è sufficiente saper scegliere a quanta e quale parte della realtà rinunciare.

Informazioni sullo scatto
Luogo: Milano - Fondazione Prada
Data: Luglio 2015


quando lo spazio negativo diventa positivo?

Lo spazio negativo o spazio bianco o spazio vuoto (sono tutti sinonimi) è lo spazio non occupato dal soggetto della foto o dell’immagine. 

Lo spazio negativo, che a prima vista potrebbe rappresentare la parte meno importante di una composizione, è invece l’elemento più importante: contribuisce in modo determinante a focalizzare l’attenzione di chi osserva sul soggetto, cioè sullo spazio positivo.

Prestare particolare attenzione a tutti gli elementi che rientrano in un’inquadratura è un’esercizio formale e intellettuale che porta verso la sintesi, evitando di appesantire il messaggio che vogliamo trasmettere attraverso il nostro linguaggio fotografico.

A volte questa è una nostra capacità innata, più spesso dobbiamo al continuo esercizio la nostra attitudine a saper giocare con questa intrigante proprietà.

Come esempio, fra i tanti, mi piace ricordare uno dei capolavori di Mario Giacomelli

Io non ho mani che mi accarezzino il volto

Informazioni sullo scatto
Luogo: Barolo - Cuneo
Data: Maggio 2015


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